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Conto alla rovescia per il campionato numero 87. Rovigo riparte dal titolo conquistato a fine maggio. Ecco un estratto di ciò che Luciano Ravagnani ha scritto su Allrugby 105 all’indomani di quel successo, su ciò che significa il rugby in Polesine e Rovigo per il movimento italiano.
Il Rovigo, soprattutto Rovigo città, è tornato a festeggiare lo scudetto del suo gioco. Un gioco che ha preso il nome da una città del Warwickshire, in Inghilterra, e ha dato “un nome” a una città del Polesine, nel nord Italia. Una città piccola, capoluogo di provincia (si può dire ancora?), classicamente veneta, moltissimo italiana (anche nell’alternanza politica), dove chi gioca, parla, segue, legge o semplicemente si interessa di rugby, non viene considerato stravagante minoranza. Unica in Italia? Probabilmente sì, ora che il tempo e le disgrazie, hanno tarpato le ali a L’Aquila.
La festa mancava dal 1990, esattamente da 26 anni e due giorni. Allora, 26 maggio 1990 a Brescia, per il sessantesimo scudetto, Rovigo-Treviso 18-9; ora, 28 maggio 2016, per il titolo n. 86, sul campo di casa, Rovigo-Calvisano 20-13. Una festa simbolicamente riassunta, fra le comprensibili enfasi di ogni festa, nella consegna delle “chiavi della città” al presidente della società Francesco Zambelli.
Ventisei anni, in tutte le espressioni umane, sono un tempo enorme. Costumi, ambiente, socialità, modi di vivere totalmente differenti. Generazioni che passano e non si assomigliano. Il dato anagrafico del 12 esimo scudetto del Rovigo negli 81 anni di storia della società, la più anziana frequentatrice del massimo campionato nazionale, è significativo.
Dalle “zoomate” delle telecamere sulle tribune dello stadio è stato facile ricavare testimonianza che migliaia di volti erano di persone che nel 1990 ancora non erano nate. Invece di quelli sul campo, in maglia rossoblu, in quel fine maggio 1990 ancora dovevano vedere la luce non solo i “rovigoti” Matteo Ferro, Edoardo Lubian e Nicola Quaglio, ma anche Chillon, Menon, Ruffolo, Silva, il capitano Momberg. E nati da pochi mesi erano Bernini, Majstorovic, Tenga. Ora tutti figli di un rugby diverso, di una storia ovale diversa eppure mai così strettamente serrata alla passione di una città.
Il curioso filo che ha legato ufficialmente negli atti burocratici, i fogli gara, quello del 1990 a questo scudetto 2016, è stato Massimo Brunello, l’amatissimo “Schinca” delle imprese rossoblu di quegli anni, ora sulla panchina del Calvisano.  Anche questo il segno di un rugby di espressione nuova, quantomeno più elastico nella sua dimensione strutturale.
Sul campo, invece, un altro filo, il già citato Nicola Quaglio, ha legato i due scudetti. Fra i vincitori del 1990, anche se non impegnato nella finale di Brescia, c’era infatti suo padre, Mauro, anch’egli pilone sinistro. Nicola, nato il 9 marzo 1991, senza ombra di dubbio (e un po’ di malizia sulla ricorrenza delle date…), è da considerare il vero figlio di quel penultimo scudetto rossoblu e dei festeggiamenti che ne sono seguiti.
Tutto ciò per dire che, nonostante le due nuove generazioni uscite alla ribalta; nonostante i tanti che ancora non erano nati, nonostante tutti i “nonostante” possibili, il legame tra Rovigo e il rugby non si è mai definitivamente rotto. Il “tutto nuovo” è rimasto implacabilmente “tutto come prima”.
Solo così, infatti, si può capire come una città sia potuta restare “in mischia” alimentando l’attesa sempre più assillante, paradossalmente con le tante delusioni di un quarto di secolo, comprese le tre finali perse (due sul campo di casa!) negli ultimi cinque anni, contro Petrarca (2011) e Calvisano (ultimi due anni). E sia potuta restarci malgrado il cambio degli attori e le differenti anime culturali dei protagonisti.
Se negli Anni Sessanta il Rovigo di Giordano Campice, al culmine dei tre scudetti consecutivi, espresse il massimo della “rodiginità” (ancor più che nel poker di scudetti degli Anni Cinquanta), cioè pochissimi giocatori, ma tutti di casa, massimo di periferia, negli Anni Settanta (due scudetti) già si era aperto all’Italia, agli stranieri, sia giocatori che allenatori.
A cavallo degli Anni Ottanta-Novanta (due scudetti) il Rovigo si era allineato alla modernità di un rugby ormai privo di frontiere, frantumate con la prima World Cup nel 1987. Comunque era rimasta una componente locale sempre spiccata. Dodici giocatori di casa su 16, sia nella finale 1988 contro il Treviso al Flaminio (9-7), sia in quella di Brescia. Quindi un Rovigo ancora con tanti “musi da rugby”, come amava definire i polesani Arturo Zucchello, trevigiano, apertura azzurra degli Anni Cinquanta.
L’ultimo scudetto, invece, ha avuto pochi “musi da rugby” locali, ma l’ambiente sembra orientato ad averne tanti in prospettiva, di qualsiasi origine e luogo, perché altro non potranno essere se filtrati e giudicati da una passione cittadina completamente ritrovata, ora anche più preparata, più informata (tre giornali locali si contendono la piazza), più attenta. Tornati i tempi di McEwan? Il tecnico scozzese, quando la squadra lo deludeva, nell’intervallo ricordava a tutti “Domani voglio vedere con che coraggio andrete in piazza!”.
Come al “Rigamonti” di Brescia nel ’90, anche al “Battaglini” la festa è stata, infatti, soprattutto di pubblico e di colori rosso blu. Nel 1990, tra i 12 mila del “Rigamonti” i supporters del Rovigo, che venivano dal vero e proprio “esodo dei novemila” dell’anno precedente a Bologna (Treviso-Rovigo 20-9), furono stimati in più di seimila. Lo stesso numero di seimila che a 26 anni di distanza, anche se con il vantaggio di restare in casa, si sono affollati al “Battaglini”.
Per il rugby italiano di adesso, per questi campionati minori immolati molto alla presunzione e poco ai risultati delle franchigie, più di seimila spettatori stipati fra bandiere e fumogeni, non sono pochi per una finale, anche se resta la convinzione – già da noi espressa – di una necessità di tornare al campo neutro per un festival conclusivo dell’attività nazionale: dai seniores alle giovanili.
L’affermazione del Rovigo, soprattutto come “piazza” rugbistica, è sicuramente il valore aggiunto rispetto ad altri scudetti, meritatamente conquistati da città che pure non vivono il rugby alla stessa maniera dei rodigini. Non certo per colpa, ma solo per difetto di tradizione e di passato.
Rovigo, e subito dopo il Petrarca, sono i soli resistenti baluardi storici (ma il Petrarca si rintana spesso sul campo del club, alla Guizza) di un gioco che, ora che è diventato nazionale nell’interesse grazie al Sei Nazioni e alla Nazionale che pure vince pochissimo, sta cercando altre piazze stabili. Comunque con la concorrenza di altri sport di grande appeal.
Rovigo è nel “giro” scudetti da circa 70 anni. Nel frattempo sono sparite dal panorama del massimo campionato, per i motivi più vari (franchigie comprese) tutte le grandi e medie città da scudetto: Milano, Treviso, Parma, L’Aquila, Napoli, Brescia, Torino. Mentre Roma continua a restare, come sosteneva Roy Bish, con il suo “rugby da quartiere” esauritosi sul piano dell’eccellenza nazionale nel 2000 con lo scudetto della Roma di Renato Speziali.
Quando il Rovigo aveva vinto il penultimo scudetto, le migliori realtà di quest’ultimo quarto di secolo, Calvisano e Viadana, avevano meno di vent’anni ed era allora l’asse Milano-Treviso, cioè i mezzi economici di Fininvest e Benetton, predestinati a dominare la scena e a cambiare i rapporti di forza. In sostanza cambiare il nostro rugby, con effetti non ancora metabolizzati.
Rovigo che torna leader è una bella notizia per il nostro rugby, tanto più che è illustrata dallo scudetto Giovanile (U18) e dal secondo posto nell’U16, dopo due confronti con la miracolosa Capitolina, un ventennale esempio di come vivere e sviluppare il rugby in una città come Roma
La domanda, ora, è la seguente: “Porterà qualcosa di positivo al nostro rugby lo scudetto del Rovigo?”. L’entusiasmo è contagioso, come le immagini dello stesso, ma la città e il territorio non hanno un gran potenziale di comunicazione e di stimolo a imitare, se non nell’esistente che – come si è detto – è lontano dall’interesse dei grandi agglomerati urbani.
Il Rovigo sarà costretto a ripetersi, a fare il fenomeno, per trainare qualcosa che potrebbe accodarsi, ma che ancora non è definito. Nella “rosa” molti cambiamenti, ma ormai è così a ogni stagione, per tutte le squadre. Difficile “costruire” cicli. Si oppongono le necessità delle franchigie, la libera circolazione stimolata da procuratori intraprendenti, il desiderio degli atleti di giocare purchessia dato che male accettano i sacrifici della crescita tecnica e si sentono “arrivati” prematuramente, il desiderio di monetizzare il più possibile in un professionismo instabile e di scarse risorse.

Nella foto, un’apertura di Frati durante la finale scudetto dello scorso maggio.

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